Recensione Album
1972. David Bowie ( The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars ) by Paolo Rosati
THE RISE AND FALL OF ZIGGY STARDUST AND THE SPIDERS FROM MARS
Perché un album rimane nella storia?
La risposta è impossibile.
Sicuramente un disco incontra il favore del pubblico, centra il bersaglio e si impone per le sue caratteristiche musicali, per i testi delle sue canzoni, per lo spirito di un’epoca che riesce a catturare e a fare proprio.
Rimanere nella memoria degli appassionati per tanti decenni dopo la sua uscita sul mercato discografico è un miracolo che riesce raramente.
“The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars” compie uno di questi miracoli.
Immediatamente fruibile per l’appeal della sua musica, “Ziggy Stardust” è come un viaggio in un mondo differente, dove il fantastico s’incarna nella realtà, ed ogni brano del disco secerne possibilità differenti d’interpretazione unite all’incanto dell'ascolto che si sprigiona in un battibaleno, catturando l’attenzione dell’ascoltatore che rimane avvinghiato fra le spire melodiche di ogni canzone, vivendo un cortocircuito emotivo che lo inchioda e lo avvince dall’inizio alla fine.
Non è poi così semplice descrivere la “strange fascination” che permea questo lavoro discografico, sicuramente è possibile calarsi dentro di esso, diventando parte di questo racconto che si snoda attimo per attimo, in un susseguirsi di situazioni che vengono evocate dalle parole che si fondono con i suoni, divenendo un tutt’uno.
La storia non è banale, trattandosi in fondo di un incontro ravvicinato del terzo tipo, ma l’approdo alla fantascienza si evolve come fosse la banale quotidianità, e il sogno improvvisamente diviene realtà.
“Ziggy Stardust” vive di questa ambiguità, ma la risolve con una semplicità sconcertante.
L’iniziale canzone “Five Years” è come una passeggiata in una strada di una qualsiasi metropoli terrestre, ove gli esseri umani hanno appreso che al proprio pianeta rimangono soltanto cinque anni di attesa prima della morte di tutto quanto esiste. La celebrazione di questa immaginaria sciagura epocale definitiva si snoda attraverso un blues accelerato, con il rintocco della batteria che simula una marcia funebre seguita dall’irruzione prepotente delle tastiere che conferiscono un tono di assoluta drammaticità alla composizione. Il tutto vive un crescendo emotivo che aumenta attimo dopo attimo, minuto dopo minuto, con la voce narrante dell’artista che si produce in una narrazione della vita di tutti i giorni che di colpo si blocca, congelando la routine quotidiana e consegnandola nelle mani di un destino che profuma di tragedia.
Il racconto prosegue fra i solchi della seconda canzone, “Soul Love”, dove l’umana condizione descrive sé stessa attraverso il più immediato dei sentimenti che è l’amore. Ma questo “amore dello spirito” è variopinto, ancheggia sensualmente come il ritmo blues misto calypso della canzone, sprigiona una sensualità carnale che diventa materia onirica.
In perenne bilico fra realtà e immaginazione, “Moonage Daydream” pigia sull’acceleratore del rock più duro e puro. Un attacco potentissimo di basso, batteria e chitarra proiettano l’ascoltare verso gli spazi siderali di una dimensione extraterrestre, e le note della chitarra diventano una scia cosmica che ci proietta verso le stelle. Le parole del testo sono come slogan. Una canzone realmente dionisiaca, liberatrice delle coscienze individuali che si fondono tutte insieme in un rito collettivo, profondamente intrisa di una bellezza che la induce a risplendere come un autentico gioiello rock che pare arrivare da un altro pianeta.
E da un altro pianeta arriva uno “Starman”. L’approccio è quasi banale, una chitarra acustica che introduce l’atmosfera del brano, che poi si arricchisce della batteria precisa come un metronomo e di un basso potentissimo su cui si insinua una chitarra elettrica che irrobustisce tutto il sound. Il fantastico irrompe nel quotidiano con una naturalezza insieme sconcertante e sconvolgente. Immaginate un ragazzo oppure una ragazzina che ascoltano la propria radiolina a transistor, così comune in quel 1972, e odono una canzone che sussurra al loro orecchio che fuori dalle finestre della loro camera, in alto nel cielo, confuso fra le stelle che brillano nel firmamento serale, c’è un extraterrestre, che però non intende rivelare la propria presenza, perché questo fatto potrebbe nuocere alle nostre menti, facendo crollare in un attimo le nostre convinzioni morali, religiose e filosofiche accumulatesi in millenni di storia e di civiltà. Ci sarebbe da scrivere un trattato su un evento come questo, ma il tutto viene sviscerato con una facilità tale da coinvolgerci in prima persona. Siamo noi i testimoni di questo primo contatto che non si materializza a causa di una volontà superiore.
“It Ain’t Easy” è una cover di un brano di Ron Davies, che pare denunciare la difficoltà dell’artista di pervenire al successo. Probabilmente inserita proprio per esprimere la tensione e lo spasmodico desiderio di emergere da parte di un musicista fino a quel momento profondamente sottovalutato dalla critica e assai sfortunato come vendite discografiche. Non a caso chiude la prima facciata del disco, quasi a voler tracciare un solco profondissimo fra un prima e un dopo.
Il dopo si presenta subito con la descrizione di una creatura da sogno. “Lady Stardust” canta la sua canzone di oscurità e disgrazia. Un brano elegante dominato da un pianoforte che pare un fiore che trabocca di rugiada. Ogni goccia di questa rugiada è una nota delle tastiere che vengono sapientemente toccate dalle dita del pianista, e quei suoni tanto semplici quanto coinvolgenti disegnano un quadretto naif su cui si erge l’ego narrante, una voce che potrebbe essere tanto maschile quanto femminile, una creatura pagana dipinta dalle mani capaci di un pittore preraffaelita. Disinvolta, affascinante, suadente e sensuale, la canzone e l’interprete si specchiano l’una nell’altro, creando un ideale di bellezza al contempo decadente e futurista.
Poi inizia una raffica di puro rock’roll. “Star” è l’autocelebrazione di una rockstar che è giunta al successo. L’artista si racconta citando svariati protagonisti, chiamandoli per nome, come entità reali che interagiscono attivamente col suo momento di gloria. Pianoforte e chitarra elettrica pulsano di energia, l’atmosfera si riempie di un ritmo che satura l’atmosfera della canzone di vibrazioni positive.
“Hang On to Yourself” è un altro rock’nroll, sfontato, spavaldo, a tratti quasi irrorato di un vitalismo che sfocia in una sorta di divertito nichilismo. “Impiccati da solo”, lasciati andare a quel ritmo, a quella voglia di mollare ogni ormeggio e al desiderio di lasciarti travolgere da questa nuova impossibile e incredibile avventura. Chitarra elettrica, basso e batteria sembrano fusi tutti insieme in un sound tanto potente quanto preciso nelle sue sonorità, che esprimono una raffinatissima solidità musicale e strumentale. Impulsiva e travolgente, la canzone incarna la classicità di un genere musicale che si lascia contaminare da un nuovo imperativo edonistico.
Rock’n’roll vero, dinamico, sensuale, concepito ed eseguito con un talento sopraffino, un’elegia vera e propria che esalta un genere musicale, catturandolo nella sua essenza e facendolo proprio.
“Ziggy Stardust” è la sintesi estrema e perfetta di un album ineccepibile. Una title track sublime, un riff di chitarra che si aggiunge a quelli immortali di un Keith Richards o di un Ray Davis, elettricità che sprizza da tutti i pori di una canzone a tratti dionisiaca a tratti tragica, l’apoteosi di una meteora che illumina un cielo notturno prima di ritornare nel firmamento da dove era giunta.
È il racconto di Ziggy Polvere di Stelle, l’io narrante si incarna nel personaggio a tal punto da fondersi con esso. “Sufragette City” irrompe con prepotenza appena dopo lo svanire dell’ultima scheggia elettrica di “Ziggy Stardust”: roboante e impertinente, libertina e libertaria, intrisa di tematiche sociali che vengono evocate da parole secche e scandite con audace sicurezza. Il brano è un capolavoro assoluto: intendiamoci, qua c’è tutto lo spirito del rock’n’roll da Elvis Presley a John Lennon, elaborato con sagacia e arricchito di un’intuitiva capacità descrittiva che rendono il testo una lezione per i posteri. La musica è un inno alla liberazione dai vincoli sociali che si sublima in un rock’n’roll spavaldo e dotato di un’impressionante carica sovversiva.
Arriva la fine.
Arriva “Rock’n’Roll Suicide”. Il tempo di mettere una sigaretta in bocca, accenderla, scrutare il momento dell’addio, gettare le braccia verso l’abisso, l’istante della fine che s’avvicina come un’ombra che striscia dietro le spalle. Parole che costruiscono una rapsodia dove amore e morte si uniscono in un amplesso sconvolgente. Musicalmente la canzone è una ballata degna di un musical, ed in effetti questo disco potrebbe essere concepito non soltanto come un album concept, bensì come un musical vero e proprio. Bowie gioca qui il suo asso pigliatutto: Ziggy Stardust muore per venir ricordato per sempre.
Il gioco gli riuscirà, e questo primo passo verso il successo sarà un'abile mossa che verrà ripetuta altre volte in maniere assolutamente differenti.
Fonte - ( Paolo Rosati )