Recensione Album
1968. Canned Heat - ( Boogie With Canned Heat ) by Marco Fanciulli
Parlando di blues quello dei Canned Heat è senza minima ombra di dubbio uno dei capitoli fondamentali di cui non si può fare a meno.
Come una tappa obbligata di un percorso di viaggio che volenti o nolenti non possiamo ignorare.
Fra le band californiane nate nella seconda metà degli anni sessanta andavano controcorrente perché alla psichedelia dominante scelsero il Chicago blues come modello di riferimento.
Il blues faceva parte delle vite dei Canned Heat fin dall'adolescenza: Bob Hite detto "il grizzly" per la sua stazza e Alan Wilson detto "gufo cieco" per la sua forte miopia, i due storici membri fondatori della band, collezionarono dischi di blues fino a raggiungere circa diecimila copie, sviluppando una conoscenza enciclopedica verso il genere.
Il nome Canned Heat ha un'origine curiosa: era così denominato un intruglio che girava negli stati del sud in pieno proibizionismo, una bevanda dei poveri che consisteva in puro veleno, ricavato dalla benzina dei trattori.
Questa bevanda diede il nome a un oscuro blues di un altrettanto oscuro bluesman di nome Tommy Johnson: Canned Heat Blues.
La storia del periodo d'oro Canned Heat si condensa nel periodo 1967-1970, troncare bruscamente dalla morte di Alan Wilson - Gufo Cieco nel 1970 a causa di un'overdose.
Poi ci saranno apparizioni sporadiche fino al 1981 quando muore anche Bob Hite-il Grizzly e a questo punto l'avventura Canned Heat può dirsi definitivamente conclusa. Riunioni dei superstiti del gruppo ci saranno successivamente, ma solo per rigurgiti nostalgici.
Sono tre gli avvenimenti più importanti della carriera dei Canned Heat:
il primo è l'hit mondiale On The Road Again pubblicato nel secondo album Boogie With Canned Heat, oggetto di questa recensione;
il secondo è la partecipazione al festival di Monterey, del quale aprirono le danze, e di Woodstock, i due raduni più celebri della storia;
il terzo e il leggendario album c9n John Lee Hooker Hooker'n'Heat, per chi scrive uno dei capolavori mondiali del blues di tutti i tempi (è chi non ce l'ha ancora corra a procurarselo!).
Tutt'altro che citazionistico e nemmeno didascalico, il blues dei Canned Heat è il risultato di un amore incondizionato per questo genere musicale oltre che una dovizia filologica nel saperlo reinterpretare.
La base è il blues di Chicago e John Lee Hooker ma vi sono anche incursioni nel delta blues e aperture al rock. Scarsi per non dire assenti le strizzare d'occhio alla psichedelia imperante del tempo.
I Canned Heat sono una compagine cresciuta a pane e blues, delle dodici battute ne hanno introiettato l'anima; questo è il punto di partenza per l'edificazione di un sound solido debitore al blues tradizionale e sconfinante nel rock-blues e nel boogie.
Essi prendono le ruvudità elettriche del Chicago blues così come venivano suonate nel celebre ghetto della Windy City della gente di colore e le ibridano con la maestria di John Lee Hooker, autentico demiurgo di un blues profondo e introspettivo. Ed è proprio la lezione del grande bluesman a imprimere al sound dei Canned Heat quella profondità di sentimento che mescolata alle vibrazioni elettriche chicagoana formano un blues granitico, spigoloso, potente, vibrante e roccioso.
A questo basta aggiungere qualche distorsione rock e il gioco è fatto.
I Canned Heat non solo reinterpretato l'anima del blues ma fanno risuscitare la sua aura di musica nata sulla strada e per la strada: sono la nuova reincarnazione dell'antico spirito dei bluesmen che giacevano ai bordi delle strade del Mississippi e dell'Alabama e che respiravano il fumo e l'olio dei camion.
E anche dei bluesmen inurbati della Chicago degli anni trenta, tanto calati nei locali malfamati delle viscere del South Side, quanto distanti dalla polvere da sparo e dalle raffiche di mitra della Chicago dei gangster.
Boogie with Canned Heat è il secondo album e risale al 1968. È un disco di roccioso boogie-blues-rock, solo in un episodio c'è una spruzzata di psichedelia.
Non solo per la presenza di On The Road Again il disco è memorabile: esso è un capolavoro delle dodici battute, suonato divinamente con ogni nota al posto giusto. Le parti di chitarra spiccano per gli assoli solidi e grintoso, debitori a una tradizione afroamericana scavata a fondo.
Questo è il disco che consegna alla posterità il sound Canned Heat.
Ora l'analisi brano per brano.
Evil Woman. Secchi colpi di basso pulsante e di batteria aprono a questo solido e angolare boogie-blues, cui fanno seguito taglienti riff di chitarra e tocchi di armonica. E su tutto il cantato negro di Bob Hite. Il brano parte con sincopi cadenzate per poi prendere la rincorsa nel ritornello con foga spasmodica.
My Crime.
Un Chicago blues in piena regola cui si vuole creare anche l'atmosfera di un polveroso blues urbano. Brano che da solo basta a mandare in soffitta tutto l'Eric Clapton post Cream. Bello il dialogo fra la voce e la chitarra nel più genuino spirito del blues della Windy City e del suo South Side.
On The Road Again. Qui si celebra un'epoca! Un'epoca leggendaria consegnata al Mito e non si contano le volte in cui viaggiava in auto per campagne sperdute coi miei stivali a punta e con questo brano a manetta in autoradio. Un brano che rappresenta l'America e il Grande Romanzo Musicale Americano.
Pezzo che profuma di polvere del deserto attaccata alle suole degli stivali, di ronzio di grilli e cicale che si perdono all'orizzonte mentre il sole arroventa carrozzerie e serbatoi di motociclette e le rende incandescenti.
Un brano nato sulla strada e concepito per la strada per un viaggio iniziatico alla Kerouac senza meta perché un pezzo così non concepisce nemmeno il concetto di meta: è fatto per viaggiare, per essere viandanti in perenne movimento.
Vi si percepisce l'epica dei pionieri, i fondamenti della nazione americana. Basato su un ronzio di chitarra e armonica che richiama le polverose contrade del blues di John Lee Hooker, un giro armonico di quelli che riescono a ipnotizzare e a rendere tutti protagonisti di un eterno girovagare nello spazio e nei sogni. In questo senso molto vicino all'etica dei figli dei fiori.
E a farci calare in questa onirica voglia di andare la voce angelica di Alan Wilson che si confonde con l'armonica. Questo pezzo è la sublimazione e la catarsi ultima del blues di John Lee Hooker.
World in a Jug. Dal sogno al brusco risveglio con le asperità di questo primordiale rhythm and blues che pare provenire dagli scantinati di Memphis della fine degli anni quaranta.
Chitarre ruvide accompagnano un cantato rauco e nero fino al midollo da associare alle primissime prove del rhythm and blues all'alba della nascita del rock'n'roll (un esempio: Bear Cat di Rufus Thomas). Ma in questo brano ci sono anche rimandi a Howlin Wolf.
Turpentine Moan. Boogie-blues in stile New Orleans con un pianismo fa barrel house e riff di chitarra solidi come solo i Canned Heat riescono a fare. La voce è profondamente nera e se non si sapesse di chi stiamo parlando potremmo scambiarla per Muddy Waters o B.B. King. Da notare anche le parti di chitarra slide.
Whiskey Headed Woman No. 2. Un blues che è un ibrido fra Chicago blues e Appalachian blues, ennesima testimonianza della profonda conoscenza della band nel campo della dodici battute. Bello il riff acido di chitarra del bridge centrale Amphetamine Annie.
È l'unica concessione di questo disco alla psichedelia. Canzone contro la droga da parte di una band ove la droga circolava in gran quantità. Su una sincopata base boogie-blues basata su The Hunter di Albert King si innestano gli accordi di una chitarra acida ma allo stesso tempo anche languido.
L'asticelka si sposta più verso la psichedelia e il rock.
An Owl Song. Il primo dei due brani che hanno come ospite Dr. John. Un giro di armonica alla Sonny Boy Williamson apre e fa da bridge a un boogie dagli accenti jazzati in pieno stile New Orleans. Il tutto sotto la brillante produzione di Dr. John.
Marie Laveau. Il Brano che più del precedente beneficia della presenza di Dr. John e nel quale si respira il fascino di New Orleans. È dedicato a un personaggio di culto degli ambienti creoli e di colore della New Orleans dell'ottocento: Marie Laveau, una maga e sacerdotessa esperta in riti voodoo morta alla veneranda età di ottantasei anni.
Il brano è uno strumentale blues lento e pieno di pathos e cadenzato strutturato negli arrangiamenti secondo uno schema jazz: pianoforte jazz in stile d'anteguerra, chitarra lancinante e armonica lenta blues, il tutto secondo una successione di assoli tipica del jazz classico. È un brano che trasuda della multiculturalità di New Orleans.
Fried Hockey Boogie. Il brano conclusivo e più lungo del disco: più di undici minuti strutturato su uno schema boogie-blues su base John Lee Hooker. Il brano è strutturato sullo stesso giro armonico di chitarra e bassi che si ripete per tutta la durata. Praticamente una canzone di John Lee Hooker dilatata fino a diventare una jam cui i singoli musicisti si esibiscono con avventurosi accordi di chitarra e batteria. Conclusione grandiosa di un disco fenomenale.
Fonte ( Marco Fanciulli )